pittore, scultore e restauratore, nasce a Graniti (ME) nel 1924.
Nel dopoguerra si trasferisce a Roma dove frequenta esponenti dell’ambiente artistico della capitale tra i quali Mario Mafai, Antonietta Raphaël, Corrado Cagli, Afro e Mirko Basaldella, Giuseppe Capogrossi, Padre Ambrogio Fumagalli, Enrico Accatino, Padre Tito Amodei, Salvatore Meo, Stelvio Botta, Pupino Samonà, Giuseppe Mazzullo, Renato Guttuso, Mimmo Rotella.
Ha esposto in Italia e all’estero in mostre personali e collettive: nel 1949 diede un breve saggio di esperienza astrattista, partecipando a diverse mostre collettive; nel 1953 partecipò alla Mostra del Mezzogiorno, esponendo una serie di ornamenti artistici eseguiti con la tecnica dello sbalzo; nel 1954 espose quadri ad olio e disegni in una mostra alla “Creative Gallery” di Philadelphia.
Nel 1956 partecipò alla VII Quadriennale d’Arte di Roma e al Premio di Pittura Via Frattina. Negli anni successivi sue opere figurarono in diverse mostre nazionali di pittura fra le quali: Biennale di Milano 1957; Premio Modigliani 1957; Premio San Remo 1958; Biennale di Nuoro 1957-59; Mostra personale Galleria d’Arte “La Grafica del Lavoro” Roma 1960; XI Premio “Città di Terni” 1960; II, III, IV, V Rassegna Nazionale d’Arte tra il personale delle Soprintendenze alle Antichità e Belle Arti 1963-69; XIV e XV Salon Interministériel Musée d’Art Moderne Ville De Paris 1966-67; VI Mostra di Arti Figurative “Roma Viva” Palazzo delle Esposizioni Roma 1968; Mostra nazionale di pittura “V Premio Grottammare” (AP) 1968; Mostra collettiva Galleria “La Sula” Roma 1968; Mostra personale alla Galleria d’Arte “La Scogliera” di Vico Equense (NA) 1969; Mostra personale a Monopoli (BA) 1969; Mostra Collettiva “Piccolo Formato” Galleria L’Etrusca Roma 1969-70; Mostra personale Galleria d’Arte “La Sula” 1970; Mostra collettiva “Arte artigianato e cattivo gusto “ Sala 1 Scala Santa Roma 1971; Mostra collettiva UCAI centro artistico culturale “ La Pigna” Roma 1971 - 1975; Mostra collettiva Galleria “la Forma” 1975; Mostra personale Museo delle Arti e Tradizioni Popolari Roma 1987.
Sue opere figurano in collezioni pubbliche e private in Italia e all’estero (Stati Uniti, Israele, ecc.)
Muore a Roma nel 1985.
Nel 1959, quando mi trasferii dalla Galleria Nazionale d'Arte Moderna al Museo delle Arti e Tradizioni Popolari, la frequentazione con Paolo D'Agostino divenne pressoché quotidiana.
Lo conoscevo per quanto mi aveva detto di lui Peppino Mazzullo, che lo aveva scoperto nel comune loro paese nativo, Graniti sotto Taormina, e l'aveva persuaso a seguirlo a Roma; e per le parole di Sergio Donnini che, circa il '54, se l'era preso come aiuto per revisionare e restaurare i materiali del Museo di Etnografia italiana il quale, cambiato il nome in Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari, si sarebbe dovuto inaugurare da lì a poco (trent'anni fa) in uno dei palazzi dell'E42, divenuta frattanto EUR; me ne aveva anche fatto elogio Mirko con espressioni di affettuosa stima durante una mia visita in quel suo studio di Monteverde, affollato di sculture come un museo di una civiltà remota e nuovissima.
La consuetudine quotidiana con Paolo, nello stesso luogo di lavoro, mi rivelava un aspetto del suo modo d'essere del tutto inedito: un uomo schivo e alieno dalle confidenze per istintivo pudore, ma al tempo stesso bisognoso di comunicare, di avere il conforto d'una parola di conferma che era nel giusto, che la strada prescelta era quella buona.
Quando arrivai al Museo, Paolo non aveva più accanto l'amico Donnini, sotto la cui guida si era avviato all'arte del restauro e che, certamente, nei lunghi mesi di comune lavoro, fianco a fianco, aveva con lui discusso l'eterno problema dell'arte, della quale entrambi, in maniera diversa, erano innamoratissimi: l'uno con struggente nostalgia per averla dovuta abbandonare negli anni difficili del dopoguerra, dopo averne cominciato ad assaporare l'inebriante gioia sulla scia dei suggerimenti ben consapevoli del suo maestro Rosai; l'altro da neofita entusiasta, perduto nei sogni di una conquista difficile e, forse, lontana, ma certa. Il mio arrivo gli diede modo di non sapersi del tutto isolato, ma di avere nuovamente qualcuno con cui aprirsi sull'amata problematica, confidarsi e sentirsi certo d'essere capito fino al punto che, nel 1960, mi chiese di presentare una sua mostra.
In quell'anno, infatti, tenne una personale alla Galleria "Grafica del Lavoro" e quella fu l'occasione in cui ebbi il primo vero contatto con la sua opera. Alle poche cose, viste in varie rassegne, si sostituiva una produzione ricchissima, che mi faceva scorrere davanti agli occhi senza un commento, aspettando da me un giudizio, una parola. Era una massa di lavoro da far paura, come se la sua mano non si fosse mai più fermata dal momento in cui egli aveva scoperto in sé possibilità e capacità creative. Insieme con la miriade di disegni, acquarelli, tele — nelle quali ultime si susseguivano i diversi periodi di ricerca: dalla interpretazione della natura, alla temperie astratta e, di nuovo, alla prima, ammirata gioia per i fenomeni naturali — scoprii alcune lastre sbalzate che mi significarono con immediatezza il vero campo del suo fare. Non inutilmente — constatavo — egli aveva vissuto per anni vicino a Mirko, maestro incomparabile dello sbalzo e orafo dei tempi nostri eccezionale e solo confrontabile ai grandi artefici della rinascenza.
Nello studio di questo mago, Paolo aveva assorbito una lezione unica, "rubando" quotidianamente con quei suoi occhi di cielo i segreti d'una tecnica raffinatissima e preziosa come i metalli cui da forma. Il maestro ebbe immediata coscienza della insaziabile fame di apprendimento di questo siculo-greco, nato a due passi da Naxos, la più antica colonia greca in terra siciliana, e lo avviò al magistero di quest'arte proponendogli i modelli del mondo classico: i cammei che l'antichità ci aveva lasciato come retaggio di bellezza. Paolo si esercitava con coscienzioso scrupolo, con disciplinata costanza, come avveniva nelle antiche botteghe: i giorni, i mesi non contavano in confronto delle quotidiane acquisizioni nel campo di quella tecnica difficile e obbligante, che non permette errori. Dinanzi ai piccoli sbalzi, scoperti in una scatola, quando ritornai nel suo ultimo studio per rivedere le opere da scegliere per questa mostra, mi parve di poter rivivere quelle giornate in cui il giovane apprendista arricchiva la sua esperienza di accorgimenti tecnici e, più, viveva ogni giorno spiritualmente il mistero dell'atto creativo del suo maestro, cercando a sua volta di riversarlo nel piccolo rettangolo di rame sul quale si esercitava.
La lastrina, posta sul cuscino di cuoio, diveniva tutto il suo mondo; la volontà e la fantasia dovevano saperne trarre la forma che la piattezza della lucida superficie sembrava non voler accogliere: mille colpi sapienti, ora lievi ora più gravi, sempre adeguatamente calibrati, avrebbero piegato ineluttabilmente la materia alla forma pensata. A poco a poco, ad ogni controllo del recto, la forma, infatti, prendeva corpo e la superficie si animava, perdendo rigidità, in un molteplice intersecarsi di linee, un susseguirsi di punti, un'alternarsi di chiari e di scuri, un degradare di piani, e si trasformava, colpo dopo colpo, in appariscente ed elegante figura tridimensionale.
Cominciarono ad uscire dalle sue mani i primi gioielli: oro e argento sostituirono il più umile rame e le forme, che l'estro del momento gli suggeriva, si trasferirono sulle lucenti lastre, concretizzandosi in combinazioni di liberi elementi ornamentali, arricchite da improvvisi lucori di pietre preziose. Era il tempo in cui l'artista sentiva più profondamente il condizionamento dell'ambiente artistico romano, nel quale si formava e che parlava astratto quasi nella totalità, come per riaffermare con forza il diritto alla più completa libertà. Poi, l'innato suo amore per la natura, il ricordo dei primi tentativi durante l'apprendistato, un desiderio di racconto fatto non soltanto di forme pure, l'indussero a tentare la figurazione naturalistica nelle minuscole dimensioni di un castone d'anello, di una spilla, di un ciondolo; e fu un momento felicissimo, nel quale egli seppe vestire di fantasia la realtà rievocata. I piccoli oggetti, infatti, in cui han vita animali mitici, pegasi, chimere o fantasiosi mostri come quelli che ricreavano i lapicidi romanici, ci dicono di un suo mondo nel quale si andava componendo in armonia il gusto classico della forma elegantemente determinata; il bisogno di superare il dato realistico, con l'accoglimento del mito; l'umile mondo semplice dell'arte popolare, inventrice di immagini; e una misteriosa componente, del tutto personale, fatta di primitività e ingenuità.
Era questo linguaggio il risultato del suo modo di assumere i suggerimenti delle fonti cui si era accostato: da un lato un'arte sinonimo di perfezione, remota e per segrete vie, inesplorabili, arrivata fino a lui, a prescindere dagli esempi conosciuti nel periodo di apprendistato; dall'altro, la libera ricreazione dei dati di natura secondo i modelli proposti da quanti vedeva operare intorno a lui, insieme con la spontanea adesione al candido linguaggio degli oggetti che gli venivano tra mano per il restauro; e infine il retaggio del suo mondo originario, a contatto con la natura, istintivo e come selvatico. Alla fine degli anni Sessanta, lasciata quasi del tutto la produzione orafa, egli tenta nuove soluzioni per la sua arte: è una svolta determinante nella ricerca, la quale fonde in sintesi personale e commossa i vari stimoli, avvertibili nelle opere precedenti, e ora la indirizza alla ammirata contemplazione della natura incorrotta e meravigliosa delle erbe e dei fiori, ch'egli indaga sottilmente con cura e amore, ora la incanala in un filone, affatto inedito e in qualche modo imprevedibile: l'intima religiosità, fatta di amore e di partecipazione, che s'è portata dentro per tutta la vita, e che si estrinseca in una immagine — il Crocefisso o la scena della Crocefissione — la quale diverrà, fino alla conclusione precoce della sua attività, tema se non unico, dominante del suo fare.
Fin dagli esempi più antichi, intorno al 1968, ci si rende conto della carica emotiva che egli trasferisce nella figurazione, la quale trova accenti di una espressività e intensità, solo rapportabili alla passionalità e purezza di linguaggio degli artefici primitivi. E, d'altra parte, il sentimento che induceva Paolo ad operare penso non si discosti da quell'empito di pietas che muoveva gli antichi. Egli libera il suo animo dal gravame di pena e di dolore, che lo angoscia per sé e per l'umanità oppressa dai mali di sempre e dal terrore apocalittico d'una perenne minaccia, e riesce a comunicare liricamente e con immediata efficacia tale sua passione in quel corpo che s'inarca nello spasimo del martirio. Ed è questa, mi sembra, la ragione per cui, abbandonata la complessità delle scene affollate, a mano a mano che i suoi modi si fanno più scarni ed essenziali, la lastra sbalzata acquista un valore formale assoluto, come se al posto di un verso, con le sue parole grammaticalmente e sintatticamente ordinate e poeticamente disposte, sgorghi solo un grido, cui da significato unicamente il modo d'emissione. Forse era questo che un antico storico dell'arte volle dire quando, per celebrare la qualità ineffabile di un'opera delicatissima, scrisse: "fatta... col fiato"!
Roma, Pasqua 1987 Jacopo Recupero